A WINNER EVERY TIME – discorsi su arte, violenza e pratica marziale con Eugene S. Robinson
MMA – Eugene S. Robinson è un uomo dalle molte vite. Attivo fin dagli anni ’80 nella scena hardcore di Brooklyn, è noto soprattutto come frontman dell’ensemble noise-rock Oxbow ed ha innumerevoli collaborazioni musicali all’attivo (tra cui quelle con gli italiani Zu e Bunuel). É autore di un romanzo hard-boiled (“A long slow screw”) e di un libro sull’arte del combattimento (“Fight”), frutto della sua incessante passione per la pratica marziale. Lo abbiamo intercettato nei camerini della tappa romana del primo tour dei Bunuel ed abbiamo cercato di trovare un filo conduttore tra la sua vita artistica, la violenza e le arti marziali con attenzione anche sulle MMA.
LA: Ciao Eugene. Cominciamo dal presente: dove ti stai allenando ora?
Eugene S. Robinson: Alla Serao Academy. Leopoldo Serao è stato campione nazionale di Luta Libre in Brasile ed anche fighter di MMA per un certo periodo, con un record di 18 vittorie e 5 sconfitte. Ha aperto la palestra specificamente per la Luta Libre, uno stile che dal punto di vista della popolarità non ha retto il confronto con il Brazilian jiu jitsu, ma che sostanzialmente è una versione brasiliana del catch wrestling – torna molto utile in combattimento perché include molte tecniche che nel BJJ non vengono insegnate: cose tipo leve ai polsi, roba parecchio cattiva insomma.
LA: Quando hai cominciato a praticare arti marziali in generale?
E. S. R.: Mi pare di aver preso la prima lezione quando avevo dieci anni, ho iniziato con shotokan karate. Poi fino ai 17 ho provato anche boxe, jiu jitsu giapponese e wrestling. C’è stata una pausa fino ai 21, quando ho ricominciato con il wrestling per poi tornare al kenpo karate per circa otto anni. Allora qualcuno mi disse che avrei dovuto provare la muay thai, che ai tempi pensavo fosse una cazzata: quando andai ad allenarmi davvero in una palestra di thai e venni picchiato in malo modo, capii che dopotutto non era proprio una cazzata. Ho praticato muay thai finché sono riuscito a seguire Javier Mendez, dopodiché ho cambiato coach di continuo e ho finito per incontrare Serao, sei anni fa. Finché resterà vicino a dove sto io continuerò ad allenarmi con lui, o almeno fin quando non prenderò la cintura nera… allora sarà libero (ride).
LA: Quindi il tuo interesse per le arti marziali era già attivo prima che cominciassi a fare musica?
E. S. R. Sì, anche se in realtà la mia prima esperienza in pubblico fu un musical a scuola. Per la prima volta qualcuno mi chiese “hey, vuoi interpretare un albero?”, così lo feci, e l’anno dopo mi chiesero se volevo interpretare il padre di Pinocchio, e io “ok, farò Geppetto”, poi ancora Capitan Uncino in Peter Pan… mi offrivano sempre ruoli poco simpatici, in effetti ha senso (ride). Se interpreti personaggi cattivi, dovresti almeno saperti difendere dai cattivi nel mondo reale.
LA: A proposito di cattivi nel mondo reale, in passato durante i tuoi concerti con gli Oxbow ti sei dovuto confrontare fisicamente con audience aggressive. Mi chiedevo se per caso avessi letto “Rising up and rising down” [tr. it. Come un’onda che sale e che scende,Mondadori, 2007] di W.T. Vollmann: quel libro si poneva l’obiettivo di trovare una sorta di punto zero della morale, per stabilire la legittimità dell’uso della violenza nelle situazioni più disparate.
E. S. R. No, non l’ho letto. Che conclusioni ne trae?
LA: Molto in generale, che il ricorso alla violenza è legittimo quando un individuo è in una situazione di pericolo e agisce per proteggere sé stesso o una persona vicina, mentre la violenza organizzata per il conseguimento di fini politici o il ripristino dell’ordine su scala di massa porta a pessime conseguenze.
E. S. R. Beh, molto in generale credo che [la violenza?] porti ad una società più instabile, e idealmente il bene sociale più alto è la perpetuazione della comunità stessa, quindi una società instabile è qualitativamente peggiore di una società stabile. Quello che forse sfugge a quest’approccio è il principio del funzionamento della violenza, cioè che è qualcosa a cui si viene introdotti tramite l’ambiente che ci circonda. È raro che si manifesti spontaneamente. Di solito azioni violente sono precedute da parole violente, c’è un climax, le persone creano un contesto che fa da sfondo all’evento. Devono avvenire una serie di passaggi minori, che di per sé non sembrano affatto violenti – immagina di guardare due persone che parlano all’altro capo di una stanza: dalla tua prospettiva sembra che stiano solo parlando, ma se ti avvicinassi sentiresti che uno dei due sta provocando l’altro, preparando il terreno per un atto violento.
LA: In questo senso volevo chiederti se hai individuato un tuo “punto zero della morale” rispetto all’utilizzo della violenza.
E. S. R. Dipende se stiamo parlando di violenza durante un concerto o per strada. Per strada, sono un maschio adulto, di solito il mio atteggiamento è lasciar dire alla gente quello che le pare… ma nel momento in cui mettono le mani addosso a me o a qualcun altro che non vuole essere toccato, allora debbo ristabilire dei confini. Durante i concerti, invece, per me diventa una questione di difesa dell’arte. Per quanto io supporti la libertà d’espressione e l’idea che ciascuno possa reagire come meglio crede, quando vai a un concerto che non ti piace puoi esprimere il tuo disappunto anche senza tirarmi una bottiglia di birra. Ci sono un sacco di cose che puoi fare, come andare a reclamare i soldi del biglietto o a sbronzarti al bar, prima di lanciarmi bottiglie piene o sigarette accese.
Certo, non sempre questi lanci vanno a segno, e in quel caso tecnicamente non si può parlare di violenza: tuttavia rimane la percezione di una minaccia, e a conti fatti chi compie questi gesti, per quanto mi riguarda, è un nemico dell’arte.
LA: Da un punto di vista artistico, invece, avere un effetto intimidatorio sul pubblico è qualcosa che fa parte dei tuoi obiettivi?
E. S. R. No, assolutamente. Per me è il completo fallimento di qualsiasi meccanismo che ambisca alla creazione di una forma d’arte. Se tu come membro del pubblico senti qualcosa, e desideri risolvere il disagio derivante da ciò che succede sul palco – cito solo fatti realmente accaduti – afferrandomi i testicoli e stritolandomeli…
LA: Beh, ad alcuni piace…
E. S. R. Eh, io non l’ho apprezzato affatto! (ride) …a quel punto ho fallito, perché ho dovuto distogliere la mia attenzione dal fare arte sotto forma di musica e focalizzarla su quest’altra cosa, e chi mi aggredisce non è rilevante in alcun modo, se non per il fatto di aver deciso di sfogarsi interrompendomi.
Il mio obiettivo principale quando sono sul palco è raccontare una storia: che l’ascoltatore rimanga coinvolto emotivamente in quello che sto facendo per me è un aspetto secondario, forse anche terziario. Fare il fenomeno da baraccone per me non ha nessun interesse, infatti se fossimo negli USA mi rifiuterei di parlare di arti marziali nel contesto musicale. Per fortuna, l’unico posto dove ancora mi succedono cose del genere è l’Inghilterra… credo che c’entri il fatto che lì la musica è ancora un’industria che produce occupazione a vari livelli, e quindi il live viene percepito come una sorta di prodotto composito rispetto al quale si può essere più o meno soddisfatti. C’entra anche l’alcol, naturalmente.
LA: In effetti crediamo anche noi che arti marziali e musica siano due mondi separati, tuttavia interessandoci ad entrambi abbiamo trovato delle intersezioni interessanti. Innanzitutto, c’è un aspetto di performance fisica nei live, e tu senz’altro sei un ottimo esempio di questo tipo di fisicità: inoltre, secondo la mia esperienza amatoriale in entrambi i campi, posso dire che durante il confronto fisico mi è capitato di raggiungere uno stato mentale particolare, quell’annullamento del pensiero cosciente che ho trovato molto simile alla concentrazione che raggiungo quando riesco a perdermi nel flusso di un concerto.
E. S. R. Capisco cosa intendi. È quel tipo di condizione che nel jiu jitsu viene chiamata flow, ma non è così facile da raggiungere. Mi ci sono voluti anni – sto cominciando a provarla con una certa frequenza solo ora (Eugene è oggi cintura marrone e pratica con costanza da circa sei anni – Ndr), e sostanzialmente ha a che fare con lo sviluppo di un approccio che funziona per le proprie caratteristiche. Lo stile personale dipende da conformazione fisica e disposizione mentale, quindi il primo passo da fare nella costruzione del proprio stile è anzitutto capire se stessi. Questo è il punto su cui mi sento di fare un paragone con il suonare: ho cominciato a fare musica nel 1980, e ci è voluto un sacco di tempo prima di poter attribuire un valore artistico a quello che stavo facendo.
LA Come tutti, prima devi capire qual è il tuo modo di esprimerti…
E. S. R. ….potresti anche finire la frase a “qual è il tuo modo”. Devi capire il tuo corpo, la tua mente, la tua anima, il tuo approccio al resto del mondo. Tornando al rapporto tra me e il pubblico: non rientra nelle mie intenzioni controllare il comportamento di nessuno, non è possibile e neanche desiderabile. Ma al tempo stesso esistono dei modi di comportarsi, un’etichetta che andrebbe sempre rispettata; così come non si sale sul tatami con le scarpe, non puoi afferrarmi i testicoli mentre suono.
LA Questo si potrebbe considerare un esempio estremo delle possibili reazioni che un essere umano può avere di fronte a una performance. È come se tu andassi a stimolare degli istinti profondi che non tutti necessariamente manifestano, ma probabilmente hanno da qualche parte dentro di sè.
E. S. R. Senz’altro. In altre parole, se mi chiedi se la cosa mi sorprende: no, non mi sorprende affatto. Provo a spiegartelo in altri termini, ti suonerà un po’ folle, infatti finora l’ho detto solo a un’altra persona (ride). C’è questo esperimento chiamato paradosso di Einstein-Podolsky-Rosen (EPR) in cui, semplificando all’estremo, due elementi correlati vengono separati e uno dei due viene investito da una scarica di elettroni: nonostante siano distinti e separati, è possibile rilevare la scarica elettronica anche su quello che non è stato colpito. Risale agli anni ’30, e ai tempi le perone più interessate all’esoterismo ritenevano che questo paradosso avesse gettato le basi per lo studio dei fenomeni paranormali (ESP), della telepatia e del pensiero precognitivo. Pensa solo a come la Chiesa sfrutti a proprio vantaggio vari metodi di suggestione, abbassando le luci, usando l’incenso, la musica liturgica…
A me è successa una cosa assurda. A un nostro concerto a San Francisco c’era questo tipo, un poliziotto; a un certo punto cominciò a litigare di brutto con la sua ragazza, corsero di fuori, lei scappò e lui si mise a inseguirla in macchina: prese una serie di strade contromano e alla fine si schiantò contro un idrante, ribaltando l’auto. A quel punto andò nel panico e tirò fuori un cacciavite, lo piantò nel serbatoio e diede fuoco all’auto. Dopodiché corse a casa e chiamò i suoi colleghi, dicendo che gli avevano rubato la macchina e che aveva bisogno di aiuto per ritrovarla. In seguito fu radiato dal corpo di polizia, ma non per questa storia. Quando persone a lui vicine gli chiesero che diavolo fosse successo quella notte, lui rispose “non lo so, è colpa degli Oxbow”. Se qualcuno gli avesse chiesto cosa in particolare lo avesse turbato dello show o di cosa parlassero le canzoni, non avrebbe saputo rispondere, né articolare uno dei miei testi. Stiamo parlando di linguaggio subliminale, ma per me si è trattato di un atto di magia, perché lui ha recepito perfettamente quello che stavo pensando e sentendo mentre mettevo in scena l’immaginario degli Oxbow. Lui l’ha capito, la sua ragazza l’ha capito, questa cosa è esplosa e la sua macchina ha preso fuoco.
LA Come se la vostra musica fosse stata il fiammifero che ha appiccato il fuoco. E’ un vecchio luogo comune, quello della musica come istigatrice di atti criminali.
E. S. R. Sì. Potrei anche fare l’esempio opposto: prima, mentre aspettavo il taxi, stavano dando un video di Justin Bieber. Ovviamente succede ben poco in un video di Justin Bieber, tuttavia è sufficiente: ti senti positivo, ti piace Justin Bieber, mi piace Justin Bieber, a tutti piace Justin Bieber nella misura in cui dà esattamente quello che ci si aspetta. A un nostro concerto succede esattamente il contrario: sei al buio, le luci sono posizionate in un certo modo, c’è l’incenso e all’improvviso non puoi più controllare quello che succede, devi lasciarti andare agli eventi. Ne parlavo tempo fa con David Yow, gli ho detto “vedo la gente uscire sempre contenta dai vostri concerti, quando esce dai nostri non sembra troppo felice”, lui mi ha guardato e ho aggiunto “e questo rende ME felice”. Al che lui ha scosso la testa dicendo “cosa c’è che non va con voi neri?” (ride).
LA Mettere a disagio qualcuno a livello emotivo in un certo senso può essere considerato un risultato, dal punto di vista artistico.
E. S. R. D’accordo, ma per me è del tutto secondario. Per me il punto è soprattutto ridurre il mio isolamento. Ho una domanda io adesso: perché vi interessate agli sport da combattimento?
LA Innanzitutto perché ritengo che la competizione sportiva, di qualsiasi genere, sia una forma di espressione nobile: l’idea di voler vincere, svincolata da aspetti secondari come denaro o gloria, o anche solo l’accettazione di tutto ciò che comporta praticare un’arte marziale, ti migliora come individuo, sia pur in maniera accidentale.
E. S. R. Esatto, ho ripetuto questa cosa ad un sacco di gente nel tempo: “non avete idea di quanto stia meglio grazie a quello che faccio”.
LA Nelle palestre ho conosciuto un sacco di persone per le quali la pratica marziale ha rappresentato un modo di canalizzare questa energia violenta che magari avrebbe trovato altri modi, più pericolosi, di sfogarsi.
E. S. R. Credo che Joe Rogan abbia riassunto al meglio questo concetto dicendo “se pratichi muay thai, boxe o jiu jitsu, questo ti rende un essere umano fottutamente duro”. Il mondo per me era un posto molto più spaventoso prima di praticare arti marziali, ora in un certo senso ho molte meno preoccupazioni, e non mi scompongo tanto facilmente. L’ultima volta che sono rimasto coinvolto in uno street fight è stato otto o nove anni fa, stavo tornando a casa e questi due tizi hanno cominciato ad insultarmi… io gli ridevo in faccia, ma loro continuavano a provocare. Allora a un certo punto ho detto “ok, basta. Non ho tempo per questo, ho delle cose da fare e anche voi. Se volete combattere dovete soltanto dire un’altra parola”. È stato un combattimento molto breve (ride).
LA Personalmente non sono mai stato coinvolto in risse da strada, e devo dire che l’idea di per sé mi spaventa per via delle troppe variabili fuori controllo. In palestra c’è sempre la consapevolezza che qualsiasi cosa succeda, anche durante uno sparring duro, basta dirlo e tutto finisce. Inoltre, in quel contesto è assente qualsiasi tipo di animosità verso il compagno/avversario; io non ho mai pensato “voglio fare male a questo tizio”, piuttosto “voglio dimostrare di essere più bravo, più forte, più intelligente…”
E. S. R. Sì, è un po’ il discorso di Bruce Lee sul contenuto emotivo del combattimento… personalmente è rarissimo che provi rabbia nel combattere, ma di sicuro quel “contenuto” c’è.
LA Questo mi fa pensare al tuo pezzo sulla tua “walkout song” preferita, credo fosse qualcosa di Sade…
E. S. R. Smooth operator! Sì…(ride)
LA Mi pare che cogliesse il punto della questione emotiva molto bene.
E. S. R. Hahahah, sì! Significa che comunque vada porterò a casa qualcosa, la vittoria o qualcuno del pubblico. Sai, quando ho fatto i mondiali di jiu jitsu ero così felice… una volta entrato sul tatami ho abbracciato il mio avversario, ho abbracciato l’arbitro, e mi hanno guardato male (ride). Vedi, quando facevo pesi era una cosa completamente diversa, era più come pulire la casa, liberarmi della negatività, ma praticare jiu jitsu, cazzo, è gioia pura. Anche quando capita di brutalizzare qualcuno lottando in allenamento, è una cosa totalmente diversa dal volergli davvero fare del male.
LA Certo. Va anche detto che in una situazione competitiva, a un certo punto una certa aggressività è necessaria.
E. S. R. Credo che praticare un’arte marziale voglia anche dire riuscire a controllare questo tipo di caos interiore, soprattutto perché può ritorcersi contro di te.
LA In ogni arte marziale credo ci sia un bagaglio di tecniche tradizionali che tendono ad essere escluse per codificare un regolamento sportivo, però è interessante studiare anche quelle per non perdere di vista le motivazioni reali (e storiche) alla base del linguaggio del combattimento.
E. S. R. Giusto. A me è anche servito imparare tecniche che mi sono più congeniali di altre. Il problema con certi allenatori è che ti fanno fottutamente male, ed è quello il loro obiettivo: vogliono che tu capisca che quello che stai facendo è serio e pericoloso, e se non stai attento vieni punito. Questo è anche il motivo per cui hanno così pochi seguaci. Karl Goetch verso la fine aveva non più di due – tre persone nel suo garage.
LA Mi ricordo che il mio maestro di muay thai era molto esperto di muay boran e spesso inseriva tecniche tradizionali nel nostro allenamento, ma a volte è capitato che ci interrompesse appena si rendeva conto che qualcuno stava per farsi male, dicendoci “ok basta così per oggi, altrimenti la prossima volta saremo in tre in palestra”.
E. S. R. Quando facevo karate, facevo spesso sparring con questo tipo con cui ero più meno alla pari, e via via ce le davamo sempre più forte. Una volta sfortunatamente gli ruppi una costola con uno spinning back kick: dico “sfortunatamente” perché poi questa persona ha smesso di praticare, ma non è stato l’infortunio a determinare la sua decisione. Credo che uno degli aspetti più importanti della pratica marziale sia che ti obbliga ad avere un dialogo con te stesso, e il motivo che lo ha fatto smettere è che quel tipo di dialogo, evidentemente, a lui non piaceva.